Decisione politica, interessi organizzati e territori. Una riflessione a cura di Paolo Feltrin

Decisione politica, interessi organizzati e territori. Una riflessione a cura di Paolo Feltrin

Notizie Principali | Notizie Territoriali

19/10/2020



Una riflessione del Prof. Paolo Feltrin su un tema di grande attualità. L'insegnamento del Covid-19 sullo "stato di emergenza".

L'emergenza sanitaria ha prodotto una risposta normativa che può essere ricondotta a uno stato di emergenza non disciplinato nella Costituzione, a differenza di quanto accade in altri ordinamenti

Di Paolo Feltrin

  1. Dare un senso alla storia

Per cominciare a introdurre questa riflessione proverò a prenderla molto alla larga esaminando alcuni temi di filosofia del diritto più volte tirati in ballo proprio per spiegare quanto è accaduto.

Per quanto la cosa possa apparire alquanto bizzarra non c'è da stupirsi perché, come vedremo, essi sono particolarmente utili per comprendere il senso degli avvenimenti di questi mesi. Il contesto attuale, caratterizzato dai profondi cambiamenti a seguito dell'emergenza da Covid 19, viene sempre più spesso indicato come 'stato di eccezione' oppure 'stato di emergenza' (Zagrebelsky 2020; Agamben 2020). Le due espressioni non sono sinonimi, tuttavia per le questioni che affronteremo in questa sede non appare così importante disquisire sulle differenze.

Qual è una ragionevole definizione di “stato di eccezione”? Si tratta di un concetto che ha una lunga storia nella filosofia politica e nel diritto costituzionale, su cui si è applicato un gran numero di studiosi dall'antichità ai nostri giorni. Nel XX secolo di solito si fa riferimento a Carl Schmitt (1888-1985), un giurista tedesco controverso per via della sua adesione al nazismo, ma della cui originalità nessuno mette in dubbio il valore. In un suo libro del 1922, di solito indicato con il titolo Teologia politica I, ripubblicato (non a caso) nel 1934 a ridosso della presa del potere di Hitler, e tradotto in Italia nel 1972, Schmitt ricorda come "tutti i concetti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati" (pag. 61). Per fare un esempio per tutti non c'è chi non veda, appena ci rifletta sopra, il parallelo tra la Carta Costituzionale e i comandamenti biblici, oppure tra l'autorità del Presidente della Repubblica e quella divina.

Cito ancora, da quel testo, il richiamo ad una affermazione perentoria del giovane Engels: "L'essenza dello Stato come della religione è la paura dell'umanità di fronte a sé stessa" (pag. 73), ovvero nei confronti della morte 6e della malattia collettiva: la pandemia, sempre per rimanere ai nostri giorni. Nello 'stato di eccezione', quando si teme di morire, ci si affida allo Stato allo stesso modo nel quale in passato ci si affidava all'intervento divino per far finire la peste, la carestia o la guerra. Ciò che viene invocato è il miracolo che ferma la catastrofe dell'epidemia, per poi rendere grazie a Dio attraverso adeguati atti di fede monumentali destinati a ricordare il miracolo, come nel caso della costruzione della basilica di Santa Maria della Salute a Venezia, costruita a Punta della Dogana dopo la fine della grande epidemia di peste bubbonica del 1630-31. Non a caso Carl Schmitt ricorda come "Lo stato di eccezione ha per la giurisprudenza un significato analogo al miracolo per la teologia" (pag. 61), e ancora: “Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione” (pag. 33).

Cosa significa? È sovrano chi decide quando fare il miracolo, vale a dire quando usare l'ultima arma che si ha a disposizione: il potere di andare oltre i limiti costituzionali per salvare la nazione. E noi in questi mesi, per la prima volta dalla seconda guerra mondiale, abbiamo vissuto dentro uno 'stato di eccezione'.

Nonostante le molte affermazioni polemiche in senso contrario, noi non abbiamo fatto esperienza dello stato di eccezione negli anni della lotta al terrorismo, né in quelli della lotta alla mafia e neppure nelle varie emergenze dei post-terremoti. In senso tecnico, l'unica occasione è stata quella del Covid con le decisioni assunte in prima persona dal Primo ministro Giuseppe Conte. Come lo stesso Presidente del Consiglio ha dichiarato in conferenza stampa il 25 marzo, “abbiamo dovuto costruire un metodo di azione e di intervento che mai è stato sperimentato prima”. In pochi giorni, agli inizi di marzo, il capo del governo prende la decisione di usare lo strumento del Dpcm, un Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, per far fronte all'emergenza. I Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri si collocano in uno dei gradini più bassi della gerarchia delle fonti, tuttavia hanno il pregio -per così dire- di essere immediatamente esecutivi, non hanno bisogno dell'approvazione del Parlamento, non passano al vaglio del Consiglio dei Ministri, e non devono neppure essere controfirmati dal Presidente della Repubblica. Nonostante il riferimento alla pandemia proclamata dall'Organizzazione mondiale della sanità e la fragile copertura dei precedenti decreti-legge di gennaio e febbraio, nessuno prima della firma sui due Dpcm dell'8 e del 9 marzo 2020 aveva mai immaginato che nel nostro paese si potessero emanare norme del tipo di quella del comma 2 dell'art. 1 del Dpcm del 9 marzo: “Sull'intero territorio nazionale è vietata ogni forma di assembramento di persone in luoghi pubblici o aperti al pubblico”, oppure quella prevista dal comma 1.a dell' art. 2 del Dpcm dell'8 marzo: “è altresì differita a data successiva al termine di efficacia del presente decreto ogni altra attività convegnistica o congressuale”.

Attenzione: qui non si intende in alcun modo criticare l'operato di Conte, anzi, semmai, sottolineando l'eccezionalità degli accadimenti, suggerire la ragione del consenso crescente al capo del governo. Se, ad esempio, a metà marzo, l'allarme per l'epidemia si fosse rivelato esagerato e il Covid una forma influenzale un po' più grave del solito, Giuseppe Conte sarebbe stato accusato di attentato alla Costituzione o di qualcosa di analogo, e la sua carriera politica finita. L'aver per primo in occidente preso misure così drastiche l'ha prima esposto alla derisione internazionale, a cominciare dagli inglesi e dagli americani, poi all'encomio generalizzato e a una qualche invidia dichiarata, come in un recente articolo di Paul Krugman sul New York Times[2]. Da questo punto di vista, il consenso interno è il riflesso della percezione del pericolo e della necessità di non tergiversare con i se e con i ma sulle scelte di chi è al comando. Analogo consenso si è registrato a tutti i livelli della catena di comando, specie per i Presidenti di regione e per i sindaci[3], a conferma delle caratteristiche peculiari che si registrano quando il pericolo è vissuto dai cittadini come un pericolo ‘capitale' (che mette a rischio il caput), ‘diretto' (sulla propria persona), ‘immediato' (qui e ora).

Rimane tuttavia il fatto che con un Dpcm si sono sospese quasi tutte le libertà della prima parte della Costituzione: la libertà di movimento, di riunione, per non parlare del rinvio delle elezioni di assemblee legislative scadute. Come appare ovvio, i Dpcm erano la tappa finale di un percorso condiviso con le forze di governo, in parte anche con le opposizioni. Sicuramente il Presidente della Repubblica era informato e ha acconsentito a questi percorsi del tutto fuori dall'ordinario. Dobbiamo fare lo sforzo di metterci nei panni del Presidente del Consiglio in quelle ore drammatiche. L'Italia è stata la prima nazione dell'Occidente a essere coinvolta dall'emergenza; le informazioni erano contraddittorie e confuse; si trattava di una situazione senza precedenti dai quali trarre indicazioni. Proprio di questo marasma parliamo quando si evoca l'espressione 'stato di eccezione'.

Tuttavia lo strappo costituzionale di questi mesi rende palese, anche per il solo fatto di costituire un precedente, la necessità di normare per via costituzionale lo 'stato di eccezione', non previsto nel nostro ordinamento per una scelta consapevole dell'Assemblea Costituente. L'unico caso di eccezionalità costituzionalmente previsto è lo 'stato di guerra', il cui percorso inizia dopo che “le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari” (art. 78, Cost.). La reticenza dei costituenti era motivata da quanto accaduto nel 1932-‘33 in Germania, ovvero dalla preoccupazione di affidare poteri troppo ampi al Presidente della Repubblica. L'importanza di normare gli stati di eccezione si evidenzia anche rileggendo un episodio di 35 anni fa. Nel 1986 il Colonnello Gheddafi (forse) lanciò due missili sulla Sicilia, i quali caddero in acqua senza conseguenze di sorta. In quella occasione Francesco Cossiga, allora Presidente della Repubblica, inviò un messaggio al Parlamento chiedendo che cosa si sarebbe dovuto fare se quella notte i missili fossero arrivati a destinazione causando morti e distruzioni. Nella sostanza il Presidente chiedeva se in una situazione di pericolo immediato e di drammatica emergenza, bisognasse attendere la convocazione dei due rami del parlamento e le loro deliberazioni, oppure se, alternativamente, vi fossero i margini ordinamentali per un intervento immediato di re-azione (un raid aereo fuori dai confini nazionali, in Libia ad esempio). Un secondo problema riguardava il ruolo del Presidente della Repubblica e quello del Presidente del Consiglio. Il Parlamento non rispose ma il Presidente del Consiglio dell'epoca, Giovanni Goria, incaricò una commissione di studio presieduta da Livio Paladin per sciogliere i dubbi. Due anni dopo, ai primi di giugno del 1988, la commissione Paladin consegnò la sua relazione, che indicava nel Presidente del Consiglio il vertice responsabile delle iniziative nello ‘stato di guerra' riservando al Presidente della Repubblica una funzione di controllo garantita dalle necessarie informazioni. A tutt'oggi, tuttavia, le normative suggerite all'epoca per proceduralizzare i rapporti tra i due massimi vertici dello Stato non sono state completate. Il rischio che accada lo stesso con lo ‘stato di eccezione' è molto elevato (e pericoloso) non fosse altro perché, come già detto, la presenza di un precedente così invasivo come le normazioni emergenziali al tempo del Covid può essere invocato in futuro anche in circostanze tutt'affatto diverse.

  1. Il ruolo degli attori politici e sociali nello 'stato di eccezione'

Come si è detto, l'uso estensivo della decretazione non va demonizzato, anzi è stata una scelta tanto coraggiosa quanto efficace. Ma cosa è successo davvero? Sotto la superficie della scena mediatica, il processo attraverso cui venivano emanati i Dpcm era molto più sofisticato di quanto fin qui evidenziato. Partiamo dal fatto, noto a tutti, di una sorta di esautoramento del Parlamento, anche perché sostanzialmente inabilitato a riunirsi per quasi due mesi. Le principali decisioni anti-Covid non sono passate per il Parlamento ma discusse e mediate in altre sedi, dove sedevano attori specializzati che poco o nulla avevano a che fare con la sfera dei partiti in senso stretto. Ogni Dpcm è stato preceduto -consapevolmente, a mio avviso, specie dopo alcuni iniziali sbandamenti- da anticipazioni, fughe di notizie, rumors di stampa, così da consentire ad alcuni attori collettivi di svolgere un preciso ruolo di supplenza parlamentare.

Stiamo parlando: a) degli esperti di settore attraverso le commissioni create ad hoc (epidemiologiche, sanitarie, economiche, sociali, ecc.); b) poi delle associazioni di rappresentanza degli interessi; ma anche c) delle rappresentanze territoriali che trovavano i loro portavoce nei Presidenti di regione; come pure d) della società civile a cui veniva data voce da parte dei mass-media (giornali e tv, in primis) e dai social.

Al termine di questo complesso percorso, di solito della durata di 10-15 giorni, e dopo un laborioso procedimento emendativo, solo e soltanto dopo veniva firmato e pubblicato il Dpcm definitivo. Sospeso il circuito standard governo/parlamento veniva attivato  -difficile dire se e quanto in modo meditato- un quadruplice circuito governo/esperti sanitari, governo/interessi organizzati, governo/regioni, governo/media che si metteva in moto a partire da un prima bozza di Dpcm fatta filtrare in via informale con la precisa finalità di  dare voce ai quattro circuiti consultivi ed emendativi.

In questi frangenti inediti, le associazioni sono state costrette a reinventarsi il proprio ruolo nel gioco. Torniamo a quei giorni. C'erano centinaia di migliaia di lavoratori che dovevano andare a lavorare, e che non sapevano se e come avrebbero dovuto comportarsi in azienda. Le persone di tutte le età, dopo la sottovalutazione iniziale, sono state travolte dalla paura, specie nelle zone più colpite dai focolai. A dare loro rassicurazione, assistenza, tutela sono stati i quattro soggetti appena indicati: gli esperti, il personale delle associazioni, i Presidenti di regione, i giornalisti. Non a caso tutti o a (quasi) tutti gli attori si sono rilegittimati, superando per un momento la diffidenza diffusa dall'antipolitica che sembrava inarrestabile. In una parola, la rappresentanza ha mostrato di essere ancora utile come mediazione tra le persone e il potere; se poi il circuito della rappresentanza politica perde colpi a causa di difficoltà oggettive come l'impossibilità di riunirsi da parte del Parlamento, ecco che torna buona la tanto bistrattata rappresentanza funzionale, come pure la rappresentanza territoriale federale, tanto che si potrebbe ipotizzare in una comparazione internazionale una relazione diretta tra la forza dell'associazionismo e le performance delle politiche pubbliche nella crisi pandemica.

Infine, la divisione alimentata dall'antipolitica tra le agende della gente comune e le agende delle elites (dominate dai detentori della ricchezza economica). L'agenda delle classi dirigenti, l'agenda dei ricchi, l'agenda dei potenti, da un lato, e l'agenda popolare dei perdenti della globalizzazione, dall'altro lato, si sono duramente scontrate in questa prima parte del XXI secolo: la prima in televisione nei summit europei e mondiali, l'altra nelle osterie e sui social. Una frattura che il Covid ha per il momento rimarginato e che si è per un attimo ricomposta, quasi per miracolo (Schmitt docet) intorno ad una nozione minimalista di ‘bene comune', la sopravvivenza, al fatto di essere davvero, senza retorica, tutti nella stessa barca e tutti impegnati in un comune tentativo di salvarsi insieme. Ma se siamo tutti nella stessa barca bisogna accettare l'idea che nel mare in tempesta c'è un capo unico, indiscusso, da non mettere mai in discussione fino a quando imperversa il pericolo. Giusto o sbagliato che sia, il suo operato non si contesta pena un pericolo ancora più drammatico: l'assenza di governo quando il rischio diventa mortale. Chi durante lo ‘stato di eccezione' non ha capito questa elementare lezione di realismo ne ha pagato l'inevitabile scotto in termini di consenso e popolarità. È quanto successo a Salvini e Renzi, che hanno perso di rilevanza politica proprio perché hanno voluto giocare a mettere in difficoltà il capitano nel pieno della tempesta, pensando in questo modo di ricavarne una qualche rendita di posizione.

A questo punto -come tema di riserva- si getta nella discussione l'inesperienza di Giuseppe Conte e il suo fortunoso arrivo con successiva giravolta a Palazzo Chigi. Non pare un grande argomento, ma conviene citare  direttamente Platone, La Repubblica, libro VI, dove mette in guardia dai dilettanti accecati dall'ambizione del potere quando mettono in discussione il capo inesperto: “guai alla situazione in cui un nocchiero piuttosto duro d'orecchio e pure corto di vista e con altrettante scarse conoscenze di cose navali è attorniato da marinai che si altercano tra loro per il governo della nave. Ciascuno credendosi in diritto di governarla lui medesimo. Mentre non ne ha mai appreso l'arte né può dichiarare in quale tempo e con quale maestro l'abbia appresa. E inoltre affermano che quest'arte non si può insegnare pronti anche a fare a pezzi chi la dica insegnabile, tutti sempre stretti attorno al nocchiero a pregarlo e pregano in tutti i modi affinché affidi loro la barra”.  L'unico che invece ha immediatamente intuito con un'abilità straordinaria il da farsi, ovvero come recitare la parte dell'opposizione in situazioni di emergenza è stato Silvio Berlusconi, il quale ha subito offerto il suo sostegno, esplicito e implicito, al Governo, condividendo le politiche europee e  svolgendo la classica funzione emendatoria-correttiva invece che cercare di mettere i bastoni tra le ruote. Ancora più esplicito è stato il discorso in parlamento il 18 marzo del leader dell'opposizione portoghese Rui Rio, il quale così si è rivolto nelle ore più tragiche al premier socialista Antonio Costa: “La minaccia che dobbiamo combattere esige unità, solidarietà, senso di responsabilità. Per me in questo momento il Governo non è l'espressione di un partito avversario, ma la guida dell'intera nazione che tutti abbiamo il dovere di aiutare. Non parliamo più di opposizione ma di collaborazione. Signor ministro, conti sul nostro aiuto. Le auguriamo coraggio, nervi d'acciaio, e buona fortuna, perché la sua fortuna sarà la nostra fortuna”.

Si potrebbero fare molti altri esempi tratti dalla cronaca di questi mesi o dalla storia dei secoli passati, ma pare assodato che ad essere chiamate in causa non sono solo le forze politiche ma pure il ruolo delle associazioni di rappresentanza degli interessi chiamate a svolgere una ‘opposizione cooperativa', il che non significa rinunciare alla critica e al conflitto, ma individuare le differenti modalità di esercizio della rappresentanza compatibili con lo stato di emergenza. Questa considerazione non vale tanto e solo come ricognizione ragionata su quanto accaduto nei mesi passati, ma ancora di più come ragionamento strategico sul futuro prossimo, dato per scontato di non avere certezza alcuna su cosa succederà nel prossimo autunno-inverno. Non sapendo se stiamo attraversando la quiete prima di una nuova tempesta occorre dotarsi della capacità guardare lontanissimo, a come sarà il mondo dopo la pandemia, unita ad una mobilità tattica straordinaria per reggere al cambio dei venti (come pure delle opinioni).

Compreso il diritto/dovere di mutare opinione quando nuove informazioni cambiano il quadro interpretativo fino ad allora considerato non opinabile. Sotto questo profilo le infinite critiche al governo o ai Presidenti di regione sono ingenerose, dal momento che navigando in mari incogniti l'errore -appunto, l'errare inciampando in mille sentieri interrotti- fa parte della fisiologia, non della patologia, quando si è dentro gli stati emergenziali. Non che le critiche non siano legittime e necessarie, ma esse hanno senso se finalizzate a migliorare l'azione di coordinamento politico, non a delegittimarlo.

Condividi l'articolo su: